La Laguna Ancora
This is a serial novella updated Sundays; for more information see this post.
Chapter 3 out now!
La Laguna Ancora; ovvero, Miel da Casiglio va a Venesia
Tanti anni fa, c’era una viaggiatrice che scese dalle montagne dove aveva vissuto per tutta la vita. Alla soglia dell’altopiano, girandosi al sud, vide all'orizzonte una striscia bianca bianca. Picchiò gli occhi, ma non poté che non guardarla. Fu l’acqua lassù. Ovvero, il mare. Questa è la sua storia, ascoltate bene.
1: Cansiglio
Miel camminò con sua sorella Talla verso la stazione dei dirigibili, rimase solo un tratto. Erano partite dalla loro casa quella mattina a prima luce, passando prima per il bosco dove vivevano ancora i cervi e poi, arrivando alle case nuove, dette così anche se la gente ci viveva da quasi due secoli ormai, scelse il sentiero al sud-ovest che li portò sul dorsale della montagna. Talla aveva nello zaino solo il suo pranzo, nella mano il suo bastone. Miel aveva sulle spalle molto di più.
Un coltello legato al braccio era l’unica cosa suggestiva del viaggio che stava per fare. Era vestita nel modo normale di una della sua famiglia, una famiglia dell’altopiano. Una bandana leggermente rosa copriva la testa intera lasciando al sole solo gli occhi e le sopracciglia, scuri come il suolo ricco dopo la pioggia. Anche si era già novembre, andava con camicia e pantaloni di lino, tinto il colore dei mirtilli selvatici. Tre giri di spago grosso fibroso cingevano il suo corpo, una alla vita e due alle spalle, e su quelli dietro stava appeso il suo zaino di tela. Dentro, tra qualche moneta, una bottiglia di succo di mela, e biscotti abbastanza per almeno tre giorni, c’era il pacco a cui aveva pensato tutta la mattina.
Una pausa era benvenuta. Avevano raggiunto la discesa che le separava dalla stazione, una breve camminata: erano in tempo. Talla si sedette subito su una panchina semplice che qualche anima aveva fatto con un tronco di faggio e un’ascia. Lei la conosceva bene, e Miel anche. C’era un panorama indimenticabile del paesaggio sotto il loro paese.
“Com’è il ginocchio?”
“Non sarei venuta se io non sapessi che ce la posso fare.” Col bastone Talla diede un colpo alla terra. Una pausa, poi aggiunse: “Sai che per me è importante.”
“Sì, lo so,” Miel rispose subito.
“Hai la lettera? Se lo perdi non ti perdonerò mai.”
“Sì, e la tua mappa che ho messo nello stivale, vedi?” Toccò dove aveva messo il tubo di carta, legato con l’erba intrecciata. Troppo carino, forse, ma Talla sempre voleva fare belle cose, e per questo era diventata una nota falegname.
“La mappa non ti basta, però. Sarà cambiato tanto in questi ultimi vent’anni. Per questo ti dicevo di trovare qualcuno subito. Non ce la farai da sola. Hai una testa impulsiva, sai? Anche la tua mantra lo dice. Secondo me ti perderai a Venesia. Per questo ho l’ansia.”
“Credi che non lo troverò.”
“No, temo che non tornerai.”
Talla, nel suo modo, lanciò la battuta e poi tacque subito, volgendosi a guardare i fiorini bianchi sparsi tra il sentiero e i sassi. Miel sapeva che tra i suoi capelli, coperti con la stessa bandana rosa, intorno alla sua coda di cavallo, che c’era annodata la sua mantra, tre versi scritti in letteri quasi indecifrabili con l'inchiostro rosso su un nastro bianco. Una terzina regalata a lei dalla mamma del rifugio dell’Altopiano:
che di lasciarti avennemi; e sospiro
la lentezza del pigro mio ritorno.
Difficile da capire, questa. Le parole no, perché loro due e i loro coetanei studiavano bene la retorica e la composizione nella scuola del paese da quando avevano cinque anni. Ma il significato di quella mantra era tuttavia oscuro, e quelle del rifugio non le direbbe da dove sono venuti i versi.
La frase doveva essere la sua guida, ma l’anno precedente per Talla era stato un anno difficile, a causa del suo ginocchio. Un incidente in laboratorio nella primavera, puro caso. Un pigro ritorno davvero. Incapacitata, non potè camminare bene le strade che attraversavano l’Altopiano. Pure accompagnare la sorella alla stazione tolse tutta la sua energia.
Miel provò ancora. “Non mi perdo mai, conosco benissimo la mappa.”
“Laggiù la logica delle cose è diversa.” Talla stava strappando l’estremità della fascia sulla sua gamba.
"Vabbè, vado a capire le nuove regole e poi lo trovo.”
”Non è così semplice, Mi.”
Miel aveva ventiquattro anni, cinque meno della sorella, e non era mai scesa dalle montagne. Talla era scesa una volta, ma questa volta non ce la poteva fare, toccava alla sorella minore.
“E perché non tornerei?” chiese Miel allora.
Talla non rispose. Miel si girò a guardare nei suoi occhi e ci trovò le lacrime, scintillando nel sole dall’oriente. I fiorini parvero in coro con le sue due luci, e tutte le gridavano di restare ancora. In quel momento una scossa era venuta al suo stesso corpo. Sbatté le palpebre una, due volte, e sorsero anche per lei le lacrime.
Ma era il momento di andare. Nonostante le lacrime e il coro dalle fiorini bianchi come stelle videro che dal nord era comparsa l’ombra tonda del dirigibile enorme. Ora si cammina. Fretta fretta fretta.
Con passi irregolari Talla andò davanti. Dopo poco stavano salendo le scale di pietra elegante e legno scolpito. Il dirigibile scendeva come una balena, o almeno nel modo in cui immaginavano che un balena scendesse, dal alto cielo, per ormeggiare accanto alla stazione di Cansiglio. Con l’aeronave arrivò anche un leggero colpo di vento che fece tremare i pini e le querce intorno all’edificio, il quale in sé neanche sembrava molto solido, composto da tre torri, una centrale di blocchi di calcare e i due rami di legno e ferro, quella settentrionale un po’ meno alta che quella sud-occidentale. Era in quell’ultima che salirono, seguendo le frecce all’interno della stazione che dicevano “Adria”.
Talla si fermò davanti a una finestra, tra due scale. La sua faccia storta diceva a Miel che il ginocchio le faceva male. “Un attimo solo, ti accompagno.”
“Tal, parte tra poco. Ci salutiamo qua.”
La sorella la guardò con occhi duri. Questo angolo della stazione non era il posto dove voleva dire un ciao alla loro alleanza perenne; desiderava con tutto il cuore andare con lei la viaggiatrice per seguire all’ultimo il consegno che doveva fare. Ma non riusciva, non c’era né abbastanza soldi né una ragione valida per cui Talla potesse salire quella scala e scendere alla pianura con Miel.
E allora cosa fare? Miel le diede un abbraccio forte e guardò oltre le loro figure, con le sciarpe rose intrecciandosi, al quel piccolo parte dell'orizzonte che poté intravedere dalla finestra, dove brillava la striscia bianca bianca, il mare.
“Guardami, Tal,” disse in quel momento, “vado e ti scrivo ogni giorno, sai. Guarderai verso Venesia da quella panchina e saprai che sono laggiù al sud, tra le acque, e saprai che lo sto cercando e poi quando il pacco è nelle sue mani, mi aiuterai a tornare subito. Okay?”
E la sorella maggiore, che la guardò tra le lacrime, la sua figura non così rigida come sembrava il momento prima, a quelle ultime parole prese la sorella minore, mani a braccia, nel modo in cui le sorelle dell’Altopiano si tenevano, e disse di sì.
Miel corse a quel punto, fuggendo sù le scale. Arrivò, respirando forte, al precipizio dove dalla porta una passerella sottile legava la torre al dirigibile. Diede il biglietto modesto alla figura al pontile, che lo stampò con le lettere “VSA” in un inchiostro rosso. Salì sulla zattera sotto la massa gonfiabile del dirigibile, e il suo cuore non ebbe tempo neanche do battere tre volte che la balena cominciò ad alzarsi silenziosamente al cielo, nel sole caldo che la spingeva verso sud.
Le montagne cadevano ai suoi piedi, la sua terra di campi verdeggianti e colline silenziosi con solo i rami e le foglie che frusciavano, che nella primavera invece si riempivano d’uccelli che arrivavano dai paesi più caldi, era piegata da lei come un foglio di un libro.
Nel momento in cui poteva ancora vedere la torre, la stazione e il bordo dell’Altopiano, vide Talla illuminata dal sole nella finestra dove s’erano lasciate. Quando vide che lei la vedeva, Talla tolse la sua bandana con una movimento fluida. Snodò il nastro bianco, la sua mantra, e la tenne tra le mani sopra la testa svelata. L’infelice giorno. Un gesto pieno di ricordi; nella mitologia del posto comunicava sia vittoria che dolore, un segno che si usava invece di gridare a lunghe distanze. Ti vedo, voleva dire. Ricordati del Cansiglio, anche. Ricordati di me.
Poi scomparve da vista. Era andata, pensò Miel, per fare la camminata indietro alla loro casa, per prendere cura dell’orto che facevano insieme, anche se era il mestiere della sorella minore. Senza le mani capaci di Miel sarebbe stato difficile prendersi cura sia della sua officina che dell’orto. E questa era la stagione tollerabile, cioè quello più importante se volevano vivere bene nella stagione calda. Per questo Talla sperò che Miel tornasse presto. Non c’era altro opportunità. I dirigibili avevano portato le notizie dal sud, e quindi la sua missione non poteva più aspettare.
Tornò dall'altra parte della piattaforma inferiore a vedere il paesaggio davanti a lei, fino all'orizzonte. Alla base delle montagne, piccoli villaggi resistevano il caldo e le inondazioni annuali dei fiumi. Miel li conosceva solo dagli scambi che il suo paese faceva ogni tanto tramite le funivie: come era detto, riso sù, castagne giù. Ora lei era lontana da quella realtà, e nella sua testa suonava la frase che creava la fascia per i suoi capelli lunghi castani, e anche il nodo del suo essere, per cui doveva pensare a lungo quell’anno specialmente. A lei il suo significato non era ancora chiaro come il sole, non ancora radicato nella sua anima come le montagne nella terra. La sua mantra che cantava della acqua umile e delle infinite strade.
2: Pianura
L’elica del dirigibile girava lentamente, e il motore solare la faceva colpire felicemente l’aria. Uff, uff, uff, il tono basso veniva dal indietro mentre Miel restava sul balcone, prima a sinistra, poi a destra, guardando le montagne che si allontanarono man mano. Tracciò con gli occhi il sentiero che si porta giù sotto le funivie, il ruscello dal quale si beve l'acqua dolce e chiara che ci sorgeva.
“Prossima stazione, Venesia. Venesia, quaranta minuti.” L'altoparlante aveva un accento che suonava ai suoi orecchi come uno dei villaggi ancora più alti di Cansiglio, dove era andata qualche volte per mantenere legami con gli zii dei suoi genitori, ormai scomparsi da quattro anni, sempre portando qualche meraviglia di legno che Talla aveva creato delle querce intorno alla loro casa. Le città che aveva visitato erano pochi. Inisbruk, Cortina, Brisson, tutte e tre sedi della rete dei rifugi che attiravano tanti fedeli negli ultimi decenni. Tutti chi, come la famiglia di Talla e Miel, decisero di rinunciare la vita della pianura calda per una vita più povera e più ricca nelle montagne fresche.
I suoi migrarono sù all’Altopiano alla metà del ventiduesimo secolo, quando il clima si stabilizzò un po’. La vita costiere non offriva tanto per due innamorati giovani all’epoca. Se ne andarono tardi con rispetto alle onde di persone che si spostarono verso il nord negli dicenni delle inondazioni. A Cansiglio il rifugio gli dava un’alternativa: un posto da vivere, benché con alcuni regole che non li costrinsero troppo. Anzi, gli permettevano che la loro vita insieme potesse continuare, e che il futuro potesse rimanere vivibile. Così insegnavano le madri dei rifugi e le maestre nella scuola collettiva:
Albergo de le Gratie alme e d’Amore,
Quella brava Gente ch’arde a tutte ore,
E vive sol de’ Raggi dei suoi lumi!
Una volta dopo la lezione Miel chiese alla maestra perché la beatitudine dice colli invece di monti, che sarebbe la parola giusta per il paesaggio intorno a Cansiglio. La maestra confessò che non ci aveva mai pensato, però probabilmente era a causa del metro poetico.
Ora riuscì vedere bene le colline più basse che aveva conosciuto prima solo dai profili, oltre le quale la pianura si stendeva. Sto rintracciando la nostra migrazione – pensò tra sè e sè – però in molto meno tempo.
Miel aveva un anno solo quando i suoi decisero di salire all’Altopiano da Venesia, e quindi non si ricordava la città lagunare. Dalle loro storie sapeva che ci vollero tre giorni nella barca di suo zio e poi a piedi sù i sentieri vertiginosi per raggiungere il rifugio di Cansiglio. Erano poveri anche allora, la mamma disoccupata per tre anni dopo il crollo definitivo del ecoturismo venesiano e il papa affrontato con inondazioni perenni nei suoi orti sparsi per la periferia della città. Nei loro racconti la laguna era diventata mostruosa e implacabile, una memoria che aveva fatto ombra sui loro facci.
Basta col passato, ora si guarda avanti, pensò. Non voleva perdersi nei sentimenti. Strinse la bandana. Il vento portava un freddino, e le venne l’immagine di Talla. Volse, perdendo l’equilibrio per un attimo. Abbracciò solo l’aria nell’istante prima che trovò la ringhiera. Respirò, poi salì le scale.
Sù nella sala interiore del dirigibile c’era una centinaia di persone girando tra il bar e le finestre che la facevano semichiusa. Vicino alla porta, una chitarrista suonava un canzone paduano. L’aroma dell’orzo arrostito raggiunse il suo naso. Il chiacchere di venti conversazioni sbatté la sua testa e non vide un posto aperto da sedersi.
Decise di tornare giù a guardare le sue montagne sempre allontanandosi.
Nonostante la freschezza che portava il vento, non sentiva freddo. Anzi un calor alzò per il suo corpo dal momento che ho visto la folla nella sala, e si sentiva arrossata in viso, nervosa che dovrebbe parlare con uno qualsiasi che non conosceva. Qua fuori c’era soltanto l’addetto che leggeva un libro vecchio a un lato. Miel sciolse la bandana rosa ora che non doveva nascondersi dai raggi del sole e la piegò in mano.
Sotto la traccia del dirigibile apparsero un paese, poi un altro, tutte e due legate da un fiume intrecciandosi attraverso la pianura forestata. Diversamente dai villaggi che Miel conosceva al piede delle montagne, che prendevano forma intorno ad alcuni stagni lunghi in cui gli abitanti coltivavano riso e colocasia e allevavano pesci, questi raggruppavano le case lungo il fiume, non troppo vicine ed elevate sui pali abbastanze per camminare sotto senza prendere un colpo alla testa. Vide quattro edifici che tenevano quattro ruoti enormi a girare lentamente nel flusso d’acqua sceso dal nord. Attraverso il fiume una dozzina di ponti portavano il traffico pedonale, ma non solo. Varie figure come formiche vagavano con una certa allegria riservata per chi va in biciletta, un modo di trasporto presente a Cansiglio per i pochi che vivevano lontano dal rifugio, ma laggiù ce ne erano tanti.
Il vento creato dall’elica giocava con i suoi cappelli scuri, ora scoperti e legati grazie al nastro e la sua mantra. Ormai la terzina Miel conosceva al suo cuore. Srotolò la bandana un poco e lasciò che l’estremità sbattachiasse sopra la pianura. Mentre la striscia rosa ondulava, recitò a se stessa:
e per diverso e tortuoso calle
s’insinua a lei per infinite strade.
Era tradizione tra le madri non divulgare niente delle mantre, né chi le scrisse né quando, e neanche a che cosa riferissero le parole. A Cansiglio Miel sempre aveva pensato della sua mantra quando stava innaffiando nell’orto oppure attingendo l’acqua dal pozzo. Qua sopra la pianura però, aveva una previsione che il viaggio cambierebbe totalmente le immagini evocate di quelle parole.
Tutt’a un tratto, non teneva più la bandana. Forse il vento l’aveva colpito, forse aveva rilasciato la presa stretta, forse tutte e due. Non importava a Miel, che non poteva che guardare la discesa instabile della linea bianca irregolare a terra, dove una la troverebbe e domandarsi da dove fosse venuta. I suoi occhi la seguiva con orrore fino a quando era sparita tra le piccole nuvole come serpenti che l'accettavano tra di loro.
Miel si regge, si allontanò dal bordo della piattaforma. Si senti esposta più che mai e non seppe cosa fare. L'addetto non le dava neanche la sua attenzione, occhi fissi all’libro il titolo di cui Miel ora poteva discerne: Il Nome della Rosa, un testo dall’età di petrolio.
Lei si rese conto che Miel la guardava. “Scusi, mi sono perso tra i capitoli. Studio per gli esami di letteratura pre-millenarie, sono studente a Bologna. Lei ha una domanda per me?”
Più arrabbiata a sè che alla studente, Miel si volse e salì di nuova alla sala centrale senza dirle una parole.
Senza la sua bandana il chiasso nella sala era più scioccante che prima. Miel camminò diritto tra le onde di rumori verso l’aroma d’orzo al bar. Diede un occhiata al banco, ma non c’era nemmeno una sedia libera. Camminò avanti ancora, fino alla finestra larga che guardava al panorama meridionale, e quando vide l'orizzonte, poi che visione l’aspettava là sotto, per un attimo il fiato non le venne.
Stava sospesa sopra un mosaico fatto di tessere verdi ed argente. Per la maggior parte del corso finora aveva visto la pianura sotto coperta di boschi, con alcuni nodi qui e là dove sorgeva un villaggio o un altro. Invece qua vide grandi gruppi di piccoli edifici alzati su pali lunghi laddove le piste ciclabili ed i binari ferroviari si incrociavano. Seguì con gli occhi una di quelle piste che veniva dall’ovest, collegando tre frazioni costieri come perle in fila, poi biforcando un campo d’acqua inquadrato da argini bassi, poi saltando un ruscello e girandosi leggermente al nord, poi diventando una strada che portava la gente in città. Lunga la strada che correva dalla periferia al centro c’era una locanda ogni cento passi, tra le quali i mercati raccoglievano la gente venuta a fare scambi per ciò che gli agricoli avevano portato quella mattina nei loro carri: grano, fiori, frutta di mare, verdure…
“Sì, Treviso è molto bello.” Miel si volse alla mano destra. Su una panchina si sedeva una figura anziana che guardava davanti con occhiali scuri ed enormi. Quelli erano preziosi, perché la plastica non s’era prodotta per almeno cinquant’anni.
“Si dice, a Treviso chi va con fieno, parte con la pancia pieno,” continuava. “Senta che è ancora vero, non ci ho mai visitato senza mangiare molto bene.”
“Io non ci sono stato mai,” Miel rispose. L’anziano inclinò la testa ma non le guardò direttamente. “Infatti, è la prima volta che sono scesa alla pianura.”
“Ah, allora non conosci le meraviglie dell'arcipelago trevigiano! Guarda un po, vedi il centro laggiù?”
“Sì sì. Cavolo, è al meno dieci volte più grande che le città del nord. Sono tutte nascoste nelle valli, ma questa…”
Il dirigibile, sulla discesa, si librava sopra la pianura ad un altezza che le permetteva di guardare le persone che giravano per la città. Molte di loro, non tutte, portavano i cappelli di canne in forma di un cono largo. Nelle piazze alzavano fontane tra le zattere su cui tutti camminavano. I cittadini si sedevano a tavoli sparsi davanti ai musei. Tra i duomi delle aule e dei giardini semicoperti passavano gli studenti e ricercatori dell’università. Dal centro alla periferia le quartieri gradualmente si trasformavano a campi piccoli dove lavoravano gruppi di coltivatori. La città, Miel si accorse a sorpresa, s’era permeata da parchi e boschi che si collegava l’uno all’altro con un sistema di ponti e corridoi, e la forma costellata estendeva pure al sud, fino a che non parse nessun limite definitivo tra la terra e l’acqua.
“Cosa c’è sulle isole?” Miel si domandò ad alta voce. “Non le posso vedere bene.”
“Vent’anni fa i trevigiani hanno creato quella decina di isolette come un oasis per gli uccelli, ma non solo. Anche i pescatori possano andarci per vivere. Se mi ricordo bene c’è un ostello, alcune case collettive per i giovani, e un laboratorio dell’edilizia ecologica. Insomma, e un parco, ma non solo un parco, non so. E’ un arcipelago che vive, ecco.”
C’era l’acqua anche nel centro di Treviso, ora poté vedere. Un’ampia darsena appena al sud del centro era costretta dalle fondamenta, su cui alcuni lavoratori portavano cestini di frutta e lana, e casse di legno, mentre altre figure portavano barattoli di vino dai banchetti lunga la riva. Miel vide così tanto traffico al bordo della città, dove le chiatte dei mercanti scaricavano le merci accanto a le barche sportive che premevano i vogatori, che la zona costiere sembrava tanto vivace che il centro. Sopra le fondamente correvano due i treni su un binario sottile serpeggiante tra Treviso e le altre città della pianura. Miel tenne un’occhio su un treno che era appena partita dalla stazione, camminando verso l’ovest, perpendicolarmente al tratto del dirigibile.
Miel s’accorse di un’altra città sulla pianura nella direzione del corso del treno. Sotto delle colline apparve una macchia rosa brillante al confine tra i regni verdi e blu. “E vede là, quale città c’è?” chiese all’uomo con gli occhiali scuri, indicando con la dita.
“Cara, non lo so,” sorrise. “Non ho visto una città con questi occhi per dieci anni ormai. In quale direzione guardi?”
Miel lo guardò bene per la prima volta. Non portava né cappello né bandana. A parte degli occhiali indossava una maglia nera con pantaloni grigi eleganti. Al suo lato restava un cestino tondo e bianco, e intorno al collo scintillava una collana di gemme che a Miel sembravano diamanti.
“Sono mortificata, mi scusi tanto,” gli disse, poi aggiunse: “allora lei conosce Treviso da memoria, che bravo! Io vado a Venesia, ma indicavo appena ora verso il tramonte, vedo anche delle colline.”
“Un memoria forte è un vantaggio, per forza, ma solo se sai anche ascoltare.” Pose una mano sulla valigia e si volse a Miel, che guardava ancora al panorama occidentale. “Dovrebbe essere Padova, e poi c’è la penisola Euganea oltre Padova. Detta la venesia nuovissima. Non mi era mai piaciuto quel nome, però porta una verità. L’acqua è un elemento stabile per chi la conosce, e nella nostra epoca i padovano la conoscono benissimo – al loro modo. Nel momento in cui la laguna cominciò a crescere, anni ed anni fa, mentre camminava all’entroterra, tutti quanti – i maestrini, i padovani, pure i trevigiani – si trovarono col bisogno di imparare come vivere con l’acqua. I maestrini soprattutto. Io sono nato a Maestre, e diciamo che l’abbiamo fatto meglio che i venesiani.”
“Perché?” Il dirigibile è sceso di più, e Miel notò che l’oasi di ponti e isolette abitate era circondata da alcuni case costruite sopra l’acqua, tre o quattro a ogni gruppo, con vari pontili sottili come rametti che si legavano. Sei barche a vela attraversarono la superficie azzuro nell’intermezzo tra le abitazioni.
“Perché ora sappiamo i loro fallimenti, giusto? Tu che sei del nord, conosci Le Rime delle Onde? Se ancora le maestre ve lo fanno leggere a scuola.”
“Certo che il libretto lo conosco.”
“Ecco, l’anonimo scrisse ottanta versi sugli abusi che quelli dell’età fossile hanno creato a Venesia, e ottanta versi sulle speranze per un mondo diversamente. Quella visione, per muovere dai primi versi ai secondi, è perché le città come Treviso prosperano adesso, anche con l’acqua. Abbiamo imparato.” Dal tasca prese un fazzoletto e starnutì. “Ma lascialo stare, dobbiamo trovare Zelarin.”
“Cosa sia Zelarin?”
“È dove sono nato io. Tu sarai i miei occhi. Cosa vedi adesso?”
Miel guardò giù per il vetro. Il panorama rivelò che il mosaico continua anche al fianco meridionale di Treviso, dove alcune zone della pianura erano diventate paludose, rettangoli interconnesse con corridoi sempre verdeggianti uno all’altro, che avvolte salivano sopra i canali. Ogni rettangolo di questo genere aveva un stormo di fenicotteri, garzette, gabbiani, o anatre. Altri invece erano coltivati col riso e pesce insieme. Su altri pezzi a quadro crescevano montagnole boschive con le case tra gli alberi, e questi isolotti erano legati con la terraferma con strettissimi ponti o argini argini, quasi interamente circondati dalle acque salmastre. Visto dal cielo, sembrò a Miel che le due estremità degli elementi erano frantumate assieme come lastre rotte di vetro. E allo stesso tempo i pezzi si composero per creare un intrico evolvendo.
Più avanti, il suo sguardo restò su un pezzo di terra isolato nelle acque basse. Così lontano dalla terraferma trevigiana, il rete di ponti e argini non lo raggiungeva. “Vedo un’isola con un palazzo binaco e alto, ma mi sembra abbandonato, non c’è neanche un molo. Ma non ci credo, c’è un’elicottero sopra! Pensavo che non esistessero più.”
“Aha, quello è il palazzo americano,” rise l’anziano. “È da cent’anni che non ci è andato nessuno. Dicono che la moglie fu miliardaria, e pensò che venisse l'Apocalisse quando tutto fu inondato. Lei e suo marito bevvero il veleno insieme, e secondo la leggenda i loro ossa sono ancora nelle poltrone. Decisero di saldare quel elicottero al tetto primo di suicidarsi. In realità non so perché. Allora, se guardi un po’ oltre il palazzo al sud, c’è un altro isola arginato. Ha una chiesa grande, un edificio blu, e tre pini enormi nel parco intorno.”
“Sì, vedo la chiesa e l’edificio blu, ma i pini non ci sono…”
“Ah, no? Che triste. Mi ricordo tanti bei giochi intorno a quei pini con i amici. Dunque, vedi il parco del mercato e le strade principali con i negozi. Mi dicono che Zelarin non sta molto bene, ma so che il suo spirito non molla mai. Quando ero bambino veniva il camion una volta alla settimana, che vendeva i pesci che si trova solo a Venesia, cioè nel mare. Altri giorni mangiavamo i pesci, certo, ma solo quelli piccoli che frequentavano i canali intorno a Zelarin e nei campi, che nell’epoca non erano campi d’acqua ma di terra. Alla nostra sagra la gente veniva in barca da tutte le zone di Maestre. Nel parco c’era un vero banchetto per sei giorni, con grandi bottiglie di vino che producevamo noi dalle vigne che crescevano sulle tette e nei orto intorno al municipo…”
Miel vide solo i rovini. L’isola grande di Zelarin sembrava allagata da qualche anni. Tra i tetti della chiesa e l’edificio blu con tante balcone era aperto un vuoto acquatico invece del mercato centrale. Qualche ponte e zattere risaliva ancora, però il legno era marcia, tutto mangiato dal tempo.
“Nella mia adolescenza dovevamo rifare i primi argini, e abbiamo fatto anche alcuni nuovi intorno ai campi che volevano reclamare per l’orto comunale. Io ho fatto la mia parte, e lì ho coltivato le verdure per venti stagioni col miu caru amicu, che è scomparsu quando aveva soltanto trentasette anni. Noi avevamo una posto al secondo piano, e ho messo una serra sopra perche ci piacevano le piante. L’ho costruito bene, forse ancora c’è…”
Miel vedeva solo danni e cose abbandonate sopra i tetti: le altane, i mattoni di un camino dispersi, qualche conchiglie di metallo arrugginiti. Era ovvio che nessuno ci viveva.
“Che vite avevamo a Zelarin. È un paesino di gente gentile e cooperativa. Non era paradiso, certo, ma facevamo le sagre sotto le sere estive, e grazie all’acqua che ci circondava abbiamo dato il benvenuto a vari ospiti ogni notte, a le persone che girava per guardare le meraviglie dell'arcipelago e il modo in cui le famiglie come nostre di Zelarin si hanno adattato con ardore e passione alle tempeste dell’epoca. Anche quando non parlavamo la stessa lingua (che non succedeva quasi mai perché tutti sanno al meno un po’ d’inglese o un po’ d’italiano per fare due chiacchere) ci divertivamo, sì. Ci divertivamo. Quando sono partito però c’era frizione tra chi voleva partire e chi rimaneva. È difficile mantenere le argine con l’acqua sempre in salita, quindi la vita probabilmente è peggiorata: c’è meno lavoro, pochi ospiti, poca gente che ci vive. Se hanno tagliato i tre pini a me è una tragedia, ma il paesino sopravviverà. Dico che sopravviverà perché Zelarin ha più vita che ho io, decisivamente, ed io scomparirò tra non molto.”
Mentre parlava, le rovini di Zelarino passavano da visto. Miel girava invece nella città delle memorie che le raccontava. Aveva deciso di non dirgli niente del destino di Zelarin. Invece si domandava come mai possedeva oggetti di valore – i diamanti, le occhiali, il cestino elegante – se aveva cresciuto in un luogo lontano dalle città dove la gente scambiava oggetti preziosi. Voleva sapere dove avesse vissuto per l'intervallo d’anni in cui la sua paese di nascita scomparve sottacqua.
Non avrebbe avuto l’opportuna porgli le sue domande, però. Il dirigibile scendeva per l’ultimo parte del tratto, e l’altoparlante disse con voce forte: “Maestre! Venesia, connessioni a Venesia, Marghè, Treviso, Padova, Isole grondaia. Prossima fermata, Pola.” Miel si alzò, e l’uomo, che per un momento aveva taciuto, la guardava direttamente in faccia.
“Scendi qua, cara?”
“Sì, vado a trovare mia nonna che vive nel centro.”
“Brava lei. È verò, hai un accento dal centro storico. Anche la mia nonna restava in laguna per tutta la sua vita. Ricordati, l’acqua è un’amica, ma stai attenta. Saprai quando è il momento giusto di partire. Poi ch’altrove il destino andar mi sforza… Lo conosci?”
Miel scosse la testa. Ebbe la sensazione strana di sentire i suoi capelli legati frusciando alla nuca.
“Con quel duol di lasciarti, o mio bel nido, ch’in me più sembre poggia e si rinforza. Che la fortuna vada con te. Io continuo fino a Rimini. La mia figlia gestisce una discoteca galleggiante, e mi è venuta la voglia di vederla. Buon viaggio.”
Quelle parole fluidi portavano a Miel più domande ancora, ma l’uomo si girò alla finestra, e lei doveva uscire subito. “Altrettanto,” disse in un fiato, e prese lo zaino in mano giù le scale alla piattaforma, poi scese giù ancora, e si trovò su una terrazza davanti a cui apriva la laguna.
3. Marghé
Trovò la barca senza problema. Là, tra gli imbarcaderi e i binari e le torri che erano montati uno sull’altro in una rete tridimensionale di piattaforme e scale e banchetti, Miel raggiunse la linea che la porterebbe in città.
I venditori maestrini arrostivano l’orzo in un forno collettivo nel mezzo della sala centrale. Miel col suo zaino riempito passò e quasi ne sbatté una che portava un cestino alla sua cucina dove macinerebbe i grani caldi. Altri già li stavano macinando, facendo bollire l’acqua e offrendo al banco le loro tazzine scaldanti. Era uno spettacolo, il rito di bere qualcosa tra un arrivo e una partenza, e così i viaggiatori si raccoglievano in gruppetti davanti alle figure con le grembiuli multi-colorati che mai potevano perdere il profumo di tostatura.
La visione chiara della laguna fu sparita dal momento che il dirigibile scese alla stazione di Maestre. Come un nodo urbano, unì tutti i trasporti sotto una serie di tetti che increspavano col vento e proteggevano i passeggeri dal sole. Trovandosi un passaggio per la folla – ora un fiume, ora un stagno – Miel arrivò alla linea G per Venesia.
La barca somigliava una chiatta elegante, lunga per una ventina di passeggeri, con linee che correvano non tanto sopra l’acqua e curvavano sù davanti e dietro. Due occhi scolpiti di legno la fissavano dalla prua come due spiri ipnotizzanti.
Miel seguì due donne che salirono a quel momento, e si sedette sulla panca non prima che si girò intorno a se, cercando qualche indicazione. Sopra la poppa, accanto a un remo lunghissimo, un marinaio si sdraiò. L’altra, una ragazza con ricci belli rossi, parlava a tre viaggiatori in una lingua che Miel non conosceva, forse il turco. Volevano salire. Lei gesticolò verso la stazione, poi indicò verso il sole col suo pollice e due dite. Quella che portava tutte e tre valigie capì e fece un cenno alle sue compagne. Si spostarono verso la parte centrale della stazione. Guardando alle loro figure quando si fondavano con la folla, Miel si accorge che la stazione galleggiava proprio sull’acqua.
Man mano, gli altri passeggeri vennero. “Partenza tra pochi minuti,” chiamava la marinaia alla gente che passavano al molo. La barca restava piacevolmente nell’ombra, e Miel chiuse gli occhi. Non solo voleva trovare un momento di pace; aveva la voglia di sentire le onde che si alzavano contra i bordi della barca, um-pa, um-pa, um-pa.
Riaprì gli occhi quando si sentiva un cigolio: una famiglia di tre adulti e due figli stendeva un telone elegante che fu nascosto al bordo. Tutte e cinque portavano cappelli larghi di canne che ormai Miel sapeva riconoscere per le persone che dovevano lavorare nel sole. Tra gli altri seduti nella barca c’era un trio con zaini enormi, ognuno con una coperta impermeabile arancione, raggruppati intorno a uno dei quattro tavolini. Poi una giovane nascosta sotto il suo cappello che chiaramente voleva soltanto leggere il suo libro. E poi un giovane con un berretto di lana, che mangiava una mela. Quest’ultimo portava una giacca bianca, lunga con vari bottoni splendenti, e pantaloni di tela adornati con grossi anelli di acciaio. Lui si sedeva dall’altra parte, davanti a Miel. Le diede un bel sorriso quando si accorgeva che lo guardava. Miel evitava il suo sguardo. Fece il totale: undici passeggeri, più i due marinai. Sarebbe comodo, il suo primo passaggio attraverso la laguna.
“Parte la solanda, linea G!” gridò la marinai verso la stazione. Nessun’altra figura arrivò.
Un treno passava dall’est, scivolando sui binari elevati. Un’altra barca, uguale alla loro ma due volte più grande, entrava dal sole all’ombra, parallelo ai imbarcaderi, caricata con una centinaia di persone e varie scattole. Era spinta dai remi di otto marinai, quattro a prua e quattro a poppa. Un dirigibile verde di modesta misura vagava all'orizzonte.
“Va bene,” disse la rossa. Si volse alla prua dove riposava l’altro. “Fio mio, ‘ndemo.” Lei gli diede una scossa.
Guidarono la barca a due remi. Miel non capì i loro movimenti. Non spingevano tanto, però la solanda, così la marinaia nominò la barca, accelerava ancora. I colpi neanche avevano senso. Lui davanti premeva con un remo che toccava la laguna a mano sinistra, e con ogni spinto lo girava nell’incavo di un pezzetto di legno vecchio, fissato al bordo. Lei a poppa aveva invece al suo fianco sinistra una scultura sempre di legno vecchio ma con tre buche, e ne usava tutte e tre per indirizzare la barca verso il sole, facendo girare la barca ora a destra, ora a sinistra, navigando tra i moli della stazione.
Il lampo della pala sott’acqua nascondeva la tecnica precisa, quindi Miel cedette e tolse gli occhi dal remo per guardare invece il legno intagliato con quattro buche. Il vernice mancava, e la forma non era così bella, ma capiva subito che il pezzo assomigliava la creazione che Miel portava nello zaino. Talla lo chiamava una forcola.
Non poté chiedere ai marinai perché la barca girava per affacciarsi verso la panorama lagunare, e a quel momento uscì oltre la linea tra ombra e sole.
Così veloce come l’occhio che si abitua alla luce, il marinaio davanti staccò il movimento, fece un salto sù, e tirò una corda per innalzarsi un palo, grosso quanto un albero, che dal fondo della barca diventò un tronco fiero tra i passeggeri e la prua. Dal nuovo tronco, alto tre persone, la marinaia faceva stendere una vela sottile che tramite qualche meccanismo si spiegò tra due rami, quello sopra storto e quello sotto parallelo all'orizzonte. Tra di loro si teneva un quadrilatero di tessuta fotovoltaica.
Miel riconobbe il disegno di fili finissimi che si intrecciavano largo la sua superficie, una tecnica che s'era usata anche dal popolo dell’Altopiano per le tende collettive. Ogni comunità riceveva qualche quantità della tela preziosa nei consegni mensili dalle fabbriche di Cortina.
Non aveva mai visto una vela fotovoltaica, ma quando strizzò gli occhi e guardò intorno era ovvio che tante vele argenti circondavano la loro. Ciascuno brillante come uno specchio, i quadri solari s’erano montati non solo sulle solande snelle che attraversavano l'arcipelago, ma anche aperte in due e tre sulle barche più grosse. Alla ovest, Miel vide pure una nave lunga sei volte la solanda che portava cinque vele triangolari, tutte godendosi il sole pieno che inondava la superficie della laguna.
La vela aperta e tesa, il marinaio segnalò alla sua controparte: “Elì, appost’!” Lui poi si sedette al tavolino con il gruppo degli zaini arancioni e tirava noncurantemente dalla tasca un mazzo di carte. Suscitò rumori di benvenuti dai suoi nuovi compagni.
Intanto gli altri per la maggior parte guardavano la vela con facce stupefatti. Tra chi non reagiva, la ragazza continuò a leggere. Mostrava agli altri che a lei la barca fotovoltaica non parve una cosa speciale, che lei stessa apparteneva al mondo eccezionale rappresentata dalle vele scintillanti.
Indietro, la marinaia cambiò posizione. Remo sempre in mano, usò un incavo nel pezzetto particolare per portare la pala vicina alla poppa. Miel si accorse che il suo piede a sinistra azionò un pedale, che ora teneva a manetta. La velocità della barca aumentò, e tra poco tempo si stabilizzò a un passo abbastanza allegro. Miel si alzò in piedi, e vide che il remo da poppa funzionava come timone. Nella laguna aperta, però, lo teneva fuori dall'acqua al solito. Non vide una scia dalla poppa, ma vide la stazione alle loro spalle, ancora vicina, e oltre la stazione salivano le montagne.
Sentì un colpo al suo cuore. Pensò a Talla un attimo. Poi mise il suo sguardo verso l’altra parte dell'orizzonte. Alcune forme indistinte la aspettavano: le isole di Venesia.
Ci vorrebbe più di un’ora per arrivare, però. L'arcipelago è un territorio enorme quando una l’attraversa con vela solare. Quindi Miel si sedette ancora e chiuse gli occhi. Pensò del legno al suo fianco e al bordo sottile che la teneva asciutta. Il tempo passò.
“Ehi, tu. Ehilà – vuoi una pesca?”
Il ragazzo nel berretto le stava offrendo una sfera tonda, rosa e gialla. Miel, preferendo di dormire, gli fissò e non rispose subito.
“Dai, prendi. È buona, ti giuro. Direttamente dall’orto di mia zia.”
Miel guardava agli altri passeggeri, tutti in gruppetti o immersi nei nostri affari privati. Il ragazzo era l’unico come lei, senza compagno e senza libro. Gli si rivolse con un sospiro.
“Ti ringrazio, mi scusa che non ho qualcosa che posso darti in cambio.” Miel prese la pesca dal suo mano, che aveva il colore di castagne arrostite. Lui fece un guizzo del polso per dire, figurati. Dal suo zaino ne tirò un’altra.
“Sono Arjon di Giudecca. Torno da Tessera dove dovevo fare una visita al fratellino di mia madre. Lui fa l'apicoltura, e tutte e tutti noi sull’isola mangiamo il suo miele. La settimana scorsa uno suo argini è rotto, ti ricordi il temporale? Mamma mia, che serata. Comunque, gli davo una mano. C’erano quarantacinque giovani, io incluso, venivano anche dal paesino! L’abbiamo sistemato tutto tra una giornata. Ci hanno dato le pesche in cambio – in realtà ho fatto pochissimo! Quindi mangia, è un regalo.”
Miel si presentò in poche parole, e mentre assaggiava la pesca Arjon rise.
“Ma con un nome così, la gente si aspetta che sei sempre dolce?” chiese.
“Non crederesti tutti gli scherzi che ho subito nel refugio.” Strofinò il succo della pesca dalle sue labbre. “Ma il nome mi piace comunque. Ma scusa, sei di Giudecca? Cos’è Giudecca?”
“È la nostra destinazione,” disse il ragazzo. “Io ci vivo.”
“Ma la barca va a Venesia."
“Va a Giudecca, e Giudecca è una parte di Venesia. In un senso.”
“Che vuol dire?”
“È un’isola separata dall’isola centrale. La linea G non va a Venesia.”
“Caspita,” Miel si sgonfiò. “Sono sulla linea sbagliata.”
“Ma dove devi andare?”
“A Venesia!”
Arjon mise il nocciolo dentro un fazzoletto e il fazzoletto nello suo zaino, poi guardò Miel. I suoi occhi dolci e scuri restarono sul nastro bianco tra i capelli. “È la tua prima volta nella laguna?”
Miel fece il cenno di sì, e Arjon sorrise.
“Sei già a Venesia,” disse. Si sedette sul tavolino davanti a lei, piedi sulla panca. Anche le sue scarpe erano ben fatte, eleganti e robuste abbastanza per qualche giorno di lavoro nei campi. Guardò all'orizzonte.
“Siamo un popolo fiero disperso tra tutte le isole. Non era sempre così, perché a un certo punto il nome Venesia significava solo l’isola centrale. Eravamo così frammentati che alcuni residenti del centro fingevano di essere una parte della terraferma. Immaginati, avresti potuto passare tutta la tua vita senza attraversare la laguna in barca. Chi viveva alle isole più lontane si teneva a parte dalla follia di quella Venesia, e devi capire che era una follia! Passiamo le rovine del ponte tra pochi minuti, te le indico. Comunque, dopo l’epoca di petrolio abbiamo sciolto le nostre legame con la terraferma per rifare una società aquatica, e questa e la nostra Venesia.”
Mentre parlava, Arjon prese da qualche tasca un’altra pesca e la usava per gesticolare. “Giudecca è una delle tante isole dell'arcipelago autonomo di Venesia. Hai capito? Bene. Ma dove vai esattamente?”
Pose la domanda al momento preciso che la solanda passò tra una fila di colonne di cemento e ferro, alte tanto quanto il tronco della solanda. L’acqua e l’alga giocavano intorno alle loro base, e tre pescatori occupavano una dei traversali intatti con tre sedie e una bottiglia di vino. Alzarono i loro cappelli da lontano, gridando un saluto ai marinai.
“Gli studiosi al laboratorio aperto dicono che la laguna non è ancora guarita dalle brutte interventi che i nostri avi fecero tre secoli fa,” disse Arjon. “Al meno i pesci sono sani. Non mangiare le vongole da questi parti, mi raccomando. Sono tossici per noi umani.”
“E quindi chi le mangia?”
“Nessuno, i pescatori vogliono che prosperassero perché pulissero la laguna.” Il giovane prese un boccone della pesca. “Non mi hai risposto,” disse con una bocca piena. “Dove vuoi andare?”
“Devo trovare la mia nonna,” rispose Miel. Sperò che potesse fidarsi di Arjon. “Ma non so dove stia, esattamente. A Venesia.”
“Non sai niente, neanche quale isola, quale sestiere?"
Miel non potrebbe rischiare dire di più in uno spazio così stretto. Toccò la cinghia dello suo stivalo mentre guardava gli altri passeggeri. Si avvicinò a Arjon, e lui inchinò verso di lei. “Ho una mappa, ma non posso mostrarti qua,” sussurrò. “Forse mi dai le indicazioni quando scendiamo.”
La battuta vinse un sorriso da Arjon. “Certo!” disse più forte che Miel aveva voluto. “Meglio ancora, ti invito a pranzo. Alla nostra tavola mi puoi spiegare di più, vero?”
“Vero.” Miel era contenta che avesse trovato un amico. Non solo per la compagnia, ma anche perché era troppo evidente che era entrata a un ambiente che a lei era sconosciuto. All’improvviso capì che la linea G stava per Giudecca – che scema era! – e sì domandò quando tempo ci vorrebbe trasferirsi all’isola centrale, ovunque sia. Arjon potrebbe aiutarla con la mappa, e con la mappa troverebbe la nonna. Miel pensò tra sè e sè che procederebbe così, passo dopo passo.
Si guardò sopra le spalle di Arjon, dove dalla laguna sorgevano alcuni torri e gru. “Se posso chiederti un’altra domanda, ora che sei la mia guida, mi spieghi cosa sia quel posto?”
Lui seguì il suo sguardo verso l’ovest. Dovette volgersi per vedere a che cosa riferiva. Gli anelli d'acciaio lunghi le sue gambe sferragliavano quando cambiò posizione.
Dove terminava la coda di colonne e allungandosi attraverso il cielo, le parve un labirinto di edifici costruito uno sull’altro in forme geometriche. Anche da una distanza abbastanza grande Miel si accorse che le strutture erano fatte di materiali recuperati. La costruzione più vicina assomigliava un favo, sopra di cui un arco metallico abbracciava due nodi d’attività.
“È Marghé, la nostra zona artigianale! Mi son dimenticato che non l'hai visto. Le artigiane e artigiani che lavorano a quelle isole producono tutto che non possiamo produrre nelle nostre comunità. Io ci vado ogni tanto per dare una mano a mia sorella, Pasan. La conoscerai a pranzo, fa elettricista. Lei sa fare le cose meravigliose, davvero. Saprebbe ricreare questa vela, ma non solo. Al solito si occupa con le batterie, o produce i fili che usano i treni che hai visto sulla terraferma. È un lavoro super importante per regolare l’energia. Io non sono così bravo nella officina, preferisco lavorare con l’acqua e la terra.”
“Ma è lontanissima! Tua sorella ci vada ogni giorno?”
“Sì, non è così difficile arrivarci come pensi. C’è una barca simile a questa solanda che parte direttamente da Giudecca, e porta tutte le artigiane e artigiani a Marghé. Arrivano anche da Maestre e Padova, e dalle isole grondaie. Pasan va a lavorare tre o quattro giorni alla settimana, non sempre. La bella cosa è che lei porta a casa tutto che riceve dai suoi scambi con le altre e altri. Vedrai, la settimana scorsa ha portato una pentola di ferro, bella grande. Lei conosce tutte e tutti: fabbri, squeriste, informatiche, vetrai, vasaie.”
Miel tentò d’immaginare un complesso ancora pià grande che le piccole fabbriche di Cortina. Vide nella sua mente una serie di edifici aperti e cortile dove chi vagava per la zona riuscì a vedere momenti di produzione. Alcuni compiti specializzati sarebbe fatto da una o due persone, però altri progetti chiederebbe una cinquantina di persone lavorando su un dirigibile, un treno, un solanda. A Talla piacerebbe tanto vedere la Marghé.
“Ci dovrebbe essere anche le falegnami,” Miel aggiunse.
Un cipiglio venne alla faccia di Arjon. “Poche. Non ci sono molti alberi nel arcipelago, e ciò nonostante abbiamo perso anche le competenze.”
“Non avete alberi?” Stupefatta, Miel pensò al gran bosco dell’Altopiano che ebbe lasciato qualche solo qualche ore prima.
“Ne vedi tanti?”
Aveva ragione. Fino ai limiti della sua visione c’era solo l’acqua. Altre isole apparivano davanti alla prua della solanda, ma solo qualche rametto infilava sopra il profilo delle tette, piatte e scaglionate.
Il remo appoggiato davanti colse gli suoi occhi. “Gli attrezzi della barca però, sono tutti di legno!” Miel protestò.
Arjon sorrise leggermente, imbarazzato. “Eh sì, ma sono preziosissimi. Sulle linea più grandi sono tutti di acciaio da qualche decenni. Per le solande piccole li conservano bene. Quel remo ha forse venti, trenta, quaranta anni. Non so se i maestri ancora fanno le forcole a Venesia. Mi parve che l'ultimo sia comparso l’anno scorso.”
“Ma le case?” Miel non credette che la loro società potesse funzionare senza il legno.
“Conserviamo ciò che abbiamo, e ogni anno riceviamo una chiatta di tronche da Padova per fare le manutenzioni più urgenti. Ma è veramente un problema. È difficile trovare il legno quando si vive tra le acque. Guarda, c’è la Giudecca davanti.”
Si volse alle isole che erano avvicinate silenziosamente mentre Miel aveva guardato a Marghè. A mano sinistra c’era una massa di edifici multicolori tra piccole onde che battevano alle loro facce. Altrettanto davanti e alla destra, ma per qualche motivo le abitazioni parvero più solide da quella parte, ammonticchiate una sull’altra.
La solanda entrava una stretta, ampia abbastanza per dieci barche. La marinaia indietro urlava qualcosa indistinta, salutando altri marinai che passavano con le loro imbarcazioni cariche di passeggeri, pietre, botti di vino e scattoloni di frutte e verdure. Alcuni andavano a remi, altri a vele fotovoltaiche.
Nel sole pomeridiano Miel notò qualche residenti sdraiati sulle balcone e alle piattaforme che crescevano sopra le tette delle case. Giù invece, dove la città giungeva alla laguna, c’era un’attività feroce di scambi tra barche, moli, zattere, e banchetti. Un insieme di passerelle e scalini legava ogni punto galleggiante a un altro, e così i addetti portavano le merci dall’acqua con passi svelti alle palette. Sopra di tutto, due gru tiravano pacchi sù e giù, e alle finestre delle case e dei negozietti altri lavoratori ricevevano i materiali volanti.
Un grido la tolse dallo spettacolo del scaricamento quotidiano. La marinaia a poppa lanciò un bestemmia a una barca che all’improvviso aveva bloccato il tratto della solanda. Piccola, elegante e nera, con una coppia di passeggeri davanti, s’era portata da uno che le rilanciò altre parolacce. La marinaia gli minacciava un ceffone del suo remo.
“È da qualche anni che ho visto una gondola privata nel canale della Giudecca,” commentò Arjon. “Ah, non sapresti – è illegali portarne uno con passeggeri oltre l’isola centrale. Infatti, non so perché questo abbia deciso di venire a Giudecca, e chiaramente non sa tenere una barca tra le onde!”
Intanto, il marinaio tolse la vela e abbassò il tronco, piegando gli attrezzi uno dentro l’altra, e poi si posizionò davanti per gli ultimi colpi.
“Probabilmente riceverà una sanzione,” disse Arjon. “È veramente stupida portare una gondola a Giudecca. Rappresentano lo sfruttamento, e tutti sanno che il nostro sestiere non crede a un’economia fatta così.”
“Perché sfruttamento?” chiese Miel.
“Perché una gondola privata è una barca per i ricchi, o al meno fu così cent’anni fa. Mio nonno dice che la gondola privata era il simbolo della città, e tutti che visitarono la Venesia all’epoca voleva farsi un giretto. È diventato un settore molto corrotto. Con tutto il traffico, gli modi collettivi di andare a remi diminuivano, e quasi non sono sopravissuti! Ora la gondola privata è un ricordo di un’epoca molto difficile per i residenti. Ci raccontiamo storie della città prima della decarbonizzazione, quando tutta la gente del mondo usava i voli fossili per venire qua e occupare le nostre calle, ci credi?” Scosse la sua testa.
“Oggi a Venesia ci sono invece le gondole pubbliche, ma solo intorno al Canal Grande. A Giudecca abbiamo altri mezzi, e per andare all’aperta ci sono le solande e le solapeàte, quelle grandi che vanno a Marghé.”
Arjon fermò il suo discorso quando la marinaia diede un’ultima colpa per far sciare la barca perfettamente al fianco di una zattera galleggiante. Dal dietro venne un grido, “Giudecca Palanca!”
Gli viaggiatori con zaini arancioni si alzarono, e quindi la barca ondeggiava un po’. Miel quasi si perse, ma tenne sia l’equilibrio che il suo proprio zaino. Arjon le offrì a una mano.
“Ti ringrazio, ma tutt’apposto," sorrise Miel.
“Niente di che, ti abitui tra poco,” rispose il giovane col berretto, camminando sù per le scalette verso l’imbarcadero. Alle loro spalle si sentirono la chiamata: “Linea G alle Zitelle, San Servolo, Pellestrina. Linea G."
“Se mi segui,” Arjon continuò, “ti porto a un banchetto fatto da mia mamma."
“Molto volentieri.” Miel sentì il sussurro della barca che partì, scivolando a remi e allontanandosi dalla riva. Con due mani toccava il nastro e lo strinse. Diede un ultimo sguardo alla distesa speculare della laguna che avevano appena attraversato. Le cantieri di Marghé si sovrapposero alla stazione di Maestre e alle montagne nello sfondo chiaro e brillante. Le riguardò per un attimo, poi si volse per seguire Arjon all’interno dell’isola di Giudecca.
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